The world may be known Without leaving the house;
The Sky may be seen Apart from the windows.
The further you go, The less you will know.

Monday, December 06, 2010

Die Fremde

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Acar (Serhard Can) hat eine böse Vorahnung

Il film lo ho visto questo pomeriggio, proiettato in condizioni un po' di fortuna presso la Sala Conferenze del Parlamento Europeo - Ufficio di Milano, insieme ad altre cinque o sei spettatrici.

Die Fremde, per essere davvero succinti, racconta la storia di Umay (Sibel Kekilli), una ragazza turco-tedesca che decide con grande coraggio, dopo aver subito l'ennesima violenza, di lasciare Istanbul e suo marito Kemal (interpretato dal bel Ufuk Bayraktar) che incarna il peggio del maschilismo mediterraneo. Umay non scappa sola, porta con se Cem, loro figlio, e torna a Berlino dalla propria famiglia di origine. Qui i problemi anziché finire cominciano. Lei che ha abbandonato suo marito, che gli ha portato via il figlio, che vuole riprendere a studiare, che non si è voluta sottomettere "alla mano che ti picchia, ma che anche ti carezza", lei è una puttana e porta disonore all'intera famiglia: a suo padre, a sua madre, ai suoi fratelli e a sua sorella. Quest'ultima vede il suo fidanzamento sciogliersi proprio a causa del comportamento di sua sorella maggiore. Nonostante tutto Umay non si perde d'animo e continua a lottare, sola, perché costretta ad allontanarsi proprio dalla casa paterna dove pensava, in fondo, di poter trovare rifugio. Umay desidera farsi una propria vita pur non volendo dimenticare le sue radici turche, ed è qui che la situazione si fa senza via d'uscita.

Emozioni e tensione sono mantenute alte durante tutto il film, diretto dall'esordiente austriaca Feo Aladag; gli attori tutti eccellenti, i dialoghi che passano dal turco al tedesco e viceversa non fanno altro che sottolineare la lotta interiore di ciascuno dei protagonisti che si riconosce nella propria comunità, nelle proprie origini e tradizioni e al tempo stesso si identifica anche con i valori di un mondo, quello tedesco e occidentale, dove l'individuo vuole contare di più della comunità alla quale appartiene, alla comunità che lo "contiene" ma non ne nega l'esistenza.
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Sunday, December 05, 2010

Un evento piccolo, piccolo...

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Domani il Museo del 900 aprirà le sue porte alla città, dopo un'attesa durata dieci anni da quando l'allora assessore alla cultura, Salvatore Carrubba, indisse il concorso per la ristrutturazione dell'Arengario.

Milano, secondo gli articoli che ho letto, diventa centro dell'arte e presenta niente poco di meno che al mondo il suo nuovo importante spazio espositivo. Un museo, un semplice piccolo museo, (come in altre medie e piccole città d'Europa, inutile parlare del mondo, ce ne sono a decine: Lione, Valencia, Rotterdam, Aachen...), imbambolerà per qualche mese i provinciali frequentatori di Piazza del Duomo e sarà sicuramente uno dei core element della prossima campagna elettorale dell'attuale prima cittadina.

Il museo lo ho visitato due giorni fa, in un preview del preview (Milano, negli artigli del fashion system, ama creare eventi che escludono...). Le collezioni (circa 350 opere fra cui dei Morandi, Melotti, Fontana, Marini, Sironi, Campigli, De Pisis per citare i più noti) sono sicuramente valorizzate dalla sobrietà e dall'eleganza degli spazi. Grazie al cielo i due architetti, Italo Rota e Fabio Fornasari, non hanno voluto stupire nessuno con effetti speciali. Vero è che il contenitore c'era già: l'Arengario del Portaluppi e un'ala di Palazzo Reale li hanno costretti all'interno di limiti immodificabili. Uniche bizzarrie: una rampa elicoidale tutta vetri, per accedere alla libreria e al ristorante, o meglio al bookshop e al restaurant, che fa tanto Guggenheim dei poveri e un ponte coperto, che più che altro è una passerrella che collega il "nuovo" al "vecchio". Il soffitto e il neon di Fontana a me non dicono nulla, ma sono pur sempre arte... Le cifre: 8000 metri quadrati circa di spazi, di cui circa 4500 espositivi, 28 milioni di euro spesi, del 1901-2 il Pellizza da Volpedo che la fa da padrone ora in una nicchia nera e sotto vetro, del 1968 più o meno il periodo delle ultime opere esposte.

La verità è che da quasi un secolo a Milano non si inaugurava un museo ma questo non lo ho letto in nessuno dei recenti articoli. 

Vi lascio a meditare su questa suggestiva foto, quando ancora la cosiddetta “manica lunga” di Palazzo Reale non era stata demolita per lasciare posto all'Arengario e quando ancora dell'orribile Piazza Armando Diaz non si era neanche sentito parlare.
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