The world may be known Without leaving the house;
The Sky may be seen Apart from the windows.
The further you go, The less you will know.

Thursday, January 21, 2010

A Serious Film...

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Per riprendermi dall'insulsaggine di un film visto di recente, ieri ho preferito andare sul sicuro scegliendo un film serio e quanto ho riso, dall'inizio alla fine.

A Serious Man dei Fratelli Coen è un film sul serio, senza scherzi. Ogni grande questione che ognuno di noi si dovrebbe porre viene toccata: il senso della vita, le responsabilità in famiglia, le grandi prove, la malattia etc. e le scorciatoie che a volte ci tentano e che vorremmo percorrere per rendere tutto meno complicato.

Un esilarante prologo in yiddish catapulta lo spettatore in quel mondo di favola nato dall’emarginazione degli ebrei sparsi per l’Europa poco tollerante nei loro confronti, e da lì piombiamo nella Minneapolis di fine anni ’60. Tre eccentrici rabbini che la sanno lunga sulla tradizione ebraica e intanto il nostro eroe, Larry Gopnik, soffre per il proprio imminente divorzio (annunciato dalla moglie tra una faccenda domestica e l'altra), per i problemi disciplinari del figlio (il suo bar mitzvah è imminente e lui pensa solo a farsi canne), per la crescente insofferenza della figlia (pensa solo a lavarsi i capelli e ruba soldi per rifarsi il naso), per l'inguaribile propensione ai guai di suo fratello (gioco d'azzardo, allora perseguidibile sodomia etc.), per una carriera universitaria che stenta a decollare...

In questo turbinio di immagini, di informazioni, di colori, di storie, lo spettatore si perde così come il protagonista e tutto sembra perdere senso, tutto sembra senza senso. "Tutto è senza senso" sembrano dirci i Fratelli Coen e il finale aperto del loro film si ricongiunge al messaggio iniziale che chiude il cortometraggio yiddish Accogli con semplicità quanto ti accade.

Mille sono le chiavi di lettura che fanno di questo film un piccolo capolavoro, d'altronde non stiamo parlando di una sarta che non sapeva più come farsi pubblicità... :)


Tuesday, January 19, 2010

The new fad...

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...we really didn't need or did we...?

In the past weekend flocks and flocks of Milanese gay fashion victims crammed into cinemas to see Tom Ford's A Single Man and were not disappointed by the fashion show normal people were instead deceived into. Not so trickily though.

Jon Kortajarena, a "versatile model in high fashion", unconvincingly plays the role of a Spanish hooker and most of the walk-ons, both men or women, seem to be runway models picked up for their great dumb looks. Nicholas Hoult, as seducing Kenny, attracts more attention for his infamous angora sweater than for his pretty good playing skills. Colin Firth, beautifully ageing, is just being used to sport one after the other the creations of Tom Ford Menswear brand: luxury clothing, accessories, fragrances and cosmetics. Indeed this is perfection in terms of advertising. All special effects are wisely used in the cinematography for maximum impact: warm and cold colours, light or dark lights, black and white, bright or dark, shiny or gloomy and so on.

What mostly disturbs though is the anachronistic way of presenting the issues of a third millenium couple dressed up in faked sixties' clothings. We are supposedly in 1963 and Stonewall is six years to come yet the couple depicted here has it all: a nice sofa to spend sunday afternoons both cuddled away into each other: reading books, listening to music, spoiling their pet dog. Heteronormativity at its best, paradoxically represented here by a gay couple. Groundbreaking. Bravo Tom Ford.

All we fought for... to end up conforming to the norm? No! thanks, we'd like to go beyond that. But most of all Tom Ford is an advertiser and advertisers want to sell and he does it so well, from one revolting cliché to the other, from the obivious to the pathetic... and never if ever a really disturbing image for le grand public. We walk out of the movie theater with a sense of dissatisfaction just like when we get to the final pages of a glossy fashion magazine and we can but throw it into a waste paper bin. We walk away from the movie theater knowing too well that when truly suffering from the loss of a loved one we won't give a damn about Windsor knots or our ties or shoe polish. Since when fashion and death go hand in hand? Or is this the new fad? 

Saturday, January 09, 2010

Etre bien à l'aise...

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Il y a une certaine joie que je n’ai pas et qui me manque.

Elle est accompagnée par une simplicité, une grâce, une superficialité. Une stupidité même, que non plus je n’ai pas. Et pourtant je l’aime ce type de stupidité, partagée par la majorité des gens, les happy beautiful people.

Apparemment on y appartient ou pas à cette majorité stupide et intelligente, parce que l’intelligence du corps est aussi la joie du corps...



... and if a body doesn't dance, it means there is a pain in the soul.

Un amore d'egitto...

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Pochi giorni fa, intorno a natale, ha provato a chiamarlo, di mattina, lui non gli ha risposto. Accade ancora come accadeva allora. Lui ha qualcun altro e spesso non risponde al telefono.
Fra loro c'è sempre stata questa cosa di farsi gli auguri anche per le feste dei cristiani. Lui è molto tollerante e di vedute aperte. Nella sua città natale c'è una grande comunità di copti e tante chiese. Un giorno l'altro è persino riuscito a fargli indossare una kippà. Lui rideva e chiunque lo avrebbe scambiato per ebreo. Diceva che gli ebrei non sono cattivi. Diceva che Sharon era cattivo. Gli diceva: ...أنت مش يهود يهود Faceva credere all'altro, a cui piaceva, che gli piacesse. Forse per un po'. Per i primi tempi fu davvero così. Un amore senza cognomi.

* * *
Si conobbero verso la fine del mese di Ramadan del 1420 (fra il mese di dicembre 1999 e il gennaio 2000 dell'altro calendario). Erano in moschea per l'iftar e lui aveva cucinato per tutti. Lui era il nuovo cuoco. Era da poco arrivato a Milano. Non parlava neppure una parola di italiano. L'altro ricominciava da poco a studiare l'arabo. Scambiarono qualche parola. No, scambiarono qualche sguardo e tanti sorrisi. Scambiarono numero di cellulare.


Poche settimane più tardi l'altro lo invitò a casa da lui. Un palazzo borghese, della Milano bene, dove gli stranieri non sono ben visti. A distanza di qualche anno gli disse che quella prima volta, salendo le scale, provava paura, era intimorito. L'altro decise apposta di non aprire la grata dell'ascensore, le portine di legno cigolanti, l'odore di cera. Doveva essere un'ascesa lenta, accedere al suo mondo. Per ragioni diverse entrambi tremavano un po' nel salire quelle ampie scale. Non sapeva davvero chi fosse, cosa volesse, questo ragazzo italiano che lo invitava a casa sua, con la scusa di imparare l'arabo. Mezz'ora dopo sul letto si stringevano, si baciavano.


Così cominciò, così andò avanti per i successivi quattro anni.


La prima grande crisi: quando si presentò dall'altro, potevano essere le sette di sera, era stanco, aveva lavorato tanto come suo solito, con una piccola sacca, c'erano le sue cose. Ci stava provando, voleva trasferirsi a casa sua in pianta stabile. Non gli bastavano più i fine settimana, o qualche notte a caso. Era stanco di condividere una camera con altri dieci maleodoranti egiziani. Lui eri diverso da loro. Di un altro ceto. L'altro lo guardò turbato. Non sapeva nulla di quello che era accaduto. Lo guardava sorpreso. Non capiva perché. Accese la tv. Era l'11 settembre 2001. Il suo volto si illuminò a vedere quelle immagini. Era divertito. I due grattacieli in fumo. Rideva come un matto. Rideva. Pensava che l'altro pensasse che lui in qualche modo avesse delle colpe in quanto arabo e che per questo ora era arrabbiato con lui. Non era esattamente così. Comunque scelse proprio la giornata sbagliata per cercare di trasferirsi dall'altro.


La loro relazione andò avanti. Liberamente. Si usavano a vicenda? Lui piaceva all'altro, ma nulla di più. Fra uomini è così. Non si possono fare sogni, promesse, tipo: ti amo, sei tutto per me, ti voglio sposare, avremo dei figli e via dicendo. Fra uomini si è più pratici. Per forza di cose. L'onestà, la lealtà, la franchezza però devono esserci anche fra uomini. L'altro era in buona fede, lo è sempre stato con lui e per assurdo lo è ancora. Dopo tutto quello che è stato.


Si accorse che gli era infedele dal suo lessico. Cominciò a sfoggiare parole di una indicibile volgarità. Lui non poteva capirlo, non poteva rendersene conto che quei "progressi linguistici" che amava mettere in mostra non potevano essere che il frutto di rapporti intimi con personaggi di infima levatura. Espressioni dialettali persino. Non disse nulla, in fondo non erano propriamente fidanzati. Lui non gli apparteneva e certo neppure l'altro desiderava appartenergli, alla araba. Però gli piaceva ancora e questo lui lo sapeva. E se ne approfittava.


L'altro si stancò. Più si integrava con gli italiani, più perdeva la sua gentilezza, i suoi modi mediorientali, la sua apparente innocenza. Si faceva gioco dell'altro. Lo derideva. Il suo candore, la sua trasparenza lo infastidivano. L'altro si fece forza. Lo mandò finalmente al diavolo.

Per mesi non rispose più alle sue chiamate. E quando bussava alla porta l'altro non apriva. Sapeva che eri lui. Conosceva i suoi orari. Il suo palazzo non gli incuteva più timore. Suonava al citofono dei vicini che gli aprivano il portone. Sapevano ormai che quello del quarto piano aveva un amico straniero, si fidavano delle sue buone maniere e del suo bell'aspetto. Rispettabile. Un aspetto distinto. Un bell'uomo. Un bel sorriso. Era ormai il 2004.


Passò tutto il 2005 e buona parte del 2006. L'altro perse tutte le sue tracce. Non vi fu più alcun suo segno di vita. Né lo cercò. Pensava sempre a lui però. Lo aveva stregato. Non ebbe alcuna relazione nel frattempo. Niente di niente. Pensava sempre e solo a lui. Vagheggiava di lui, del suo fantasma. Vinse una borsa di studio per migliorare l'arabo, scelse la sua città. Quattro milioni di abitanti. Impossibile incontrarsi. E poi lui era ancora in Italia, pensava.


Settembre 2006. A poche settimane dalla partenza, squilla il suo telefono. Era lui. Diceva che lo amava. Che nel 2005 era tornato a casa. Aveva lasciato l'Italia. Come sempre l'altro non gli mentì. Glielo spiegò che di lì a poco si sarebbe trovato per tre mesi nella sua città. Per studiare arabo all'università. Lo invitò a stare da lui. Senza esitazioni. Dopo tutto quello che l'altro aveva fatto per lui, era felice di poter ricambiare con la sua ospitalità. Accettò. Dopo aver posto alcune condizioni.


Rivederlo nel suo paese, nella sua città, pareva un sogno. Glielo aveva promesso, quando ancora le cose andavano bene fra loro, che un giorno gli avrebbe fatto visitare la sua città. Adesso era arrivato il suo turno. Era felice di fargli vedere come viveva lui. La sua casa. Gli piaceva poter parlare di nuovo l'italiano.


Verso le tre così, dopo un tè alla menta, gli dice che sta per rincasare suo figlio. Non gli crede. Gli è sempre piaciuto fare questi scherzi. Alle tre e mezzo del pomeriggio bussa alla porta il più dolce dei ragazzini, sì e no dodici anni. Lo chiama baba e chiede chi sia l'altro. E' diffidente all'inizio, un amico del papà che viene dall'Italia e che parla la sua lingua. All'improvviso un ospite a casa. Poco dopo gli dice che stanno per arrivare Aziza e Atiya, le sue due altre figlie, la maggiore e la più piccola. No. Ha anche un quarto figlio, nato un anno prima. Poco prima del divorzio. Tornato dall'Italia, sua moglie non lo ha più voluto. Aveva capito che gli piacevano gli uomini. Un po' troppo più del dovuto. I primi tre figli però sono rimasti a lui, questo è il codice della famiglia nel mondo arabo.


E l'altro? Quattro anni insieme e gli tenne nascosto questo di sè. Che era un marito e un papà. Aveva addirittura capito che se l'altro avesse saputo che era "una sposata" lo avrebbe preso a calci nel sedere prima che se ne potesse rendere conto. Le cose però ormai erano fatte. Aveva rinunciato alla camera nel pensionato universitario. La mattina dopo, del secondo giorno, i suoi figli andati a scuola, fanno l'amore, sul tappeto. Quando il muezzin comincia a intonare l'adhan, la chiamata alla preghiera, dice che devono interrompere, per rispetto. L'altro e suo figlio diventano inseparabili. Alim non è stupido, qualcosa l'ha capita dell'amicizia di suo padre.


* * *

Oggi lui ha provato a chiamarlo due volte. Questa volta è l'altro a non rispondere. Lo chiamerà fra poco. Ormai è sera. Sono passati dieci anni. Sono rimasti amici. A modo loro. Non è più andato a trovarlo. E lui gli chiede la lettera d'invito necessaria per tornare in Italia. L'altro occupa un buon posto, lui lo sa, un visto potrebbe farlo rilasciare in giornata. No.


Ha tradito la sua fiducia, lo ha giudicato, lo ha deriso. E' stato difficile perdonare. Imperdonabile sarebbe ricascarci. Eppure fra poco alzerà il telefono e proverà a chiamarlo, è un po' più tardi dove sta lui per via del fuso orario, gli piace salutarlo, parlare con suo figlio che ora deve essere diventato proprio un bel ragazzo, furbo però, come il papà. Salutare Atiya la più piccola e Aziza che si era presa una bella cotta per lui!


Sono passati dieci anni giusti da quel mese di Ramadan. E ancora l'idea di lui lo affascina. Il mistero dei suoi modi, della sua lingua, della sua terra. Spera che avranno un'altra chance. Spera che avranno un'altra vita. Non glielo dice mai però:

...أنا بحبك يا أنس

Friday, January 08, 2010

Shameful horror...

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Normally I do not deal with political issues in this blog, from time to time though, it is good to amplify what some people in our government would like to hide away...

please, click to enlarge and read carefully.


Thursday, January 07, 2010

Il canto delle spose...


...non convince, non convince, non convince. Troppi corsi di arte drammatica, troppa teoria, troppa scuola di cinema e viene a mancare quella spontaneità, vera o presunta, che in un film per me è imprescindibile. Gli ingredienti ci sono tutti, il racconto di per sé è originale, la tecnica c'è ma il risultato finale pare un compitino ben fatto e niente di più che lo renda unico, eccezionale.

Una storia tutta al femminile, due adolescenti, una musulmana e una ebrea, un'amicizia in bilico, dei padri assenti e delle madri impiccione per forza di cose, siamo a Tunisi ed è il 1942. Alla musulmana non è concesso di sposarsi finché il fidanzato non troverà un'occupazione stabile (e l'occupazione nazista gliene offrirà l'opportunità), all'ebrea è imposto un matrimonio di convenienza. I tempi sono duri per tutti. I sentimenti vengono ritratti ma mai esplorati fino in fondo, ci vengono offerte toccanti immagini di depilazione inguinale, qualche lacrima, qualche svenimento, tanti bacini, tante carezze. La violenza e l'indolenza maschili abbondano, tutto però rimane sempre politicamente corretto, quasi non si volesse dare fastidio a nessuno pur denunciando fatti terribili. E' questo forse che più infastidisce.

Un po' di poesia, qualche bomba che cade qua e là, qualche danza orientale, qualche bastonata nazista, un po' di lavori forzati, un abito da sposa e una dolce melodia, un maghrebino ricciolino, gli uomini più anziani che passano le loro giornate stesi a dormire: una bella frullata e il film è servito.

Un merito sicuro di Karin Albou, la regista de Le chant des mariées, è comunque quello di avere affrontato il tema quasi tabù della Seconda Guerra Mondiale nei paesi colonizzati, lei stessa che interpreta la madre di Myriam e la madre di Raoul sono le uniche attrici che ci offrono un'interpretazione degna di nota. Le due giovani, Lizzie Brocheré (Myriam), Olympe Borval (Nour), e il giovane Najib Oudghiri (Khaled), checché se ne dica, devono ancora fare strada.

Pietoso e indecente il doppiaggio del film che lo spettatore italiano è obbligato a subire. Archibald Enterprise Film che lo distribuisce se si è occupata anche di questo aspetto dovrebbe sprofondare: Nour (نور) è un nome comunissimo e si pronuncia [nu:r]!

Salviamo gli ultimi fotogrammi nei quali le due ragazze, quasi fondendosi in un abbraccio, intonano, l'una e l'altra, in arabo e in ebraico, una litania che ci fa sperare che le cose andranno per il meglio.  

Ultima nota dolente, la sala. Il Cinema Centrale ha da poco celebrato i suoi cento anni di attività ed è la più antica sala cinematografica milanese ancora attiva. Sta sempre lì lì per chiudere i battenti, non conto mai più di una ventina di spettatori quando vado a vedere qualcosa, e allora consiglio al proprietario e gestore Alberto Massirone di vegliare un po' più sulla cortesia di Colei che troneggia alla Cassa!

Monday, January 04, 2010

The diary I let people read...

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Il diario che permetto agli altri di leggere: così definiva ad un certo punto la fotografia e la sua opera, Nan Goldin. E io amo la sua opera perché mi fa essere dove vorrei essere, senza il fastidio di esserci. Non potrei sopportare gli odori per esempio che si vedono nelle fotografie di Nan Goldin. Finestre sempre chiuse, interni putridi dove si sono consumate sigarette, droga, sesso. A volte odore di cipria e rossetto. Quasi onnipresente il rosso, di vino o di sangue.

Nel 1968, all'età di quindici anni, Nan Goldin comincia a tenere in mano un apparecchio fotografico. Nel 1973 a Boston la sua prima esposizione personale: già un viaggio nelle sub-culture gay e trans del dopo Stonewall, il post-punk e il new-wave degli anni settanta e dei primi anni ottanta.  

Non mi infastidisce il suo modo di documentare la vita, perché lei lo fa dal di dentro, lei ci è immersa fino al collo, non è un'ipocrita spettatrice dei diversi, degli apparentemente diseredati, degli scoppiati che ritrae. La sua biografia ce lo conferma, anche se ne ero certo prima di documentarmi.

Provo invidia per il coraggio di avere vissuto questa vita selvaggia, di avere esplorato gli estremi, toccato il fondo, la passione, l'urgenza di consumare tutto. La vita in comune, tutti sbroccati nelle comuni, ai tempi in cui questo si faceva davvero.

Oggi ci si accontenta di farlo in internet, nei social-cosi, nelle communities virtuali...


Ieri lo si faceva e basta, non c'erano piatti da lavare o camerette da tenere in ordine...

Sunday, January 03, 2010

Una domenica fa...

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Un salotto di casa, in una casa della borghesia buona milanese. Media borghesia, non si immagini di più. Anche se le apparenze potrebbero ingannare. Il villino indipendente, primi novecento, il verde che lo circonda, poco, ma pur sempre verde. I balconcini. Il quartiere è tutto "villini priminovecento" e c'è qualcosa che non convince. La zona non è propriamente giusta. Tant'è che prorpio a ridosso sta sorgendo un palazzaccio tutto onde e tutto vetri, esempio di corruzione forse e speculazione edilizia, favorita e voluta dalla pubblica ammistrazione cittadina e regionale. Il quartiere sorse per quelli che già un'epoca fa volevano ma non potevano, e non potendo, il villino dovettero costruirselo ex novo.

Cercando di scoprire le origini di questo quartiere sono incappato in quel che si andava dicendo nei primi decenni del secolo scorso:
"[...] ben poco si è ancora fatto per le classi della piccola e media borghesia, le quali, pure, sentono forse con maggior senso di sofferenza la privazione di un ambiente di vita intima meglio rispondente alle loro aspirazioni, alla loro educazione più raffinata, alla nostalgia di un chez soi più ridente e più sereno, fatta da quotidiani necessarii confronti anche più acuta. Io mi sono proposto di svolgere un'azione in questo senso, particolarmente indirizzandola a profitto della classe dei pubblicisti, letterati, artisti, professionisti e industriali; di coloro, insomma, che da un lavoro spiccatamente intellettuale traggono i mezzi della loro quotidiana esistenza."

Così si posero le basi per la realizzazione del Quartiere a Nord-Est della Nuova Stazione Viaggiatori, "su una vasta area di oltre 120.000 metri quadrati sistemata con signorile larghezza dalla Società Anonima Quartieri Industriali Nord Milano, cessionaria dei terreni ad uso di parco [...] e su cui si stanno gettando le fondamenta di circa cento villini. [...] il primo accenno di uno sviluppo grandioso [...] che rappresenterà nei secoli futuri il grande polmone vivificatore della troppo compressa metropoli lombarda [...]." *

C'è odore di pulito nel salotto buono, di cera appena passata sui mobili. I tappeti sono stati rinfrescati, lavati, profumati. Le librerie ben spolverate. Il parquet tirato a lucido brilla. Tutto è in ordine. Un ordine disumano, freddo. Tutto è fermo, pronto per ricevere. Per mostrare a tutti che tutto va bene. Che si è all'altezza. In sala da pranzo nuove tre candele rosse stanno sul tavolo illuminate dal sole che filtra, della loro luce forse non godremo mai. Sono lì a decorare, a fare atmosfera. Due panettoni di Cova sono esposti in bella mostra, così come svariate bottiglie di vino, appena ricevute in dono probabilmente. Natale è passato da solo due giorni. Il gran lampadario vetusto che pende a mezzo il salone e immilla nel quarto le buone cose di pessimo gusto, oddio - gozzano - un corto circuito!

Mi viene in mente più o meno una frase da Family Dancing di David Leavitt che cito a memoria "Never trust clean houses where everything is in order, the very bad things happen there", ma taccio. Sono ospite insieme ad un altro ospite per un brunch domenicale. In questo periodo di crisi i brunch in casa vanno per la maggiore, ci si vede, ci si aggiorna e si fa con quello che si ha. Una spremuta di arancia a testa, una tazzina di caffè rigorosamente, qualche left over del pranzo del 26 dicembre, in fondo è soltanto ieri, del pane tostato e confettura home made. Frutta secca? Non ricordo. Il tutto allestito e servito nel tinello. La nostra ospite è solo la figlia, "questa è casa dei suoi" (parole testuali) e lei - aggiungo io - non ha il permesso per ricevere in sala da pranzo, tanto meno di offrire il caffè sui divani o sulle poltrone del salotto buono, vicino al camino oggi buio e un po' desolato. Non ci viene neppure risparimiato il rito del riordino. Riassettare è imperativo, la lavastoviglie è rotta e pare esserlo da un bel po' di tempo. Si finisce con l'asciugatura del lavello d'alluminio che sennò restano le macchie...

Penso all'ospitalità nei paesi arabi, anche presso la più indigente delle famiglie, allo sforzo di condividere genuinamente il quasi nulla che si ha con ospiti e forestieri. Qui no: siamo a Milano, ricchi, niente per niente e poi si sa la gente su mangia poco e se si deve imitarli tanto vale imitarli anche in questo.

La conversazione. Arte della conversazione? Si è spicci ormai anche in questo presso le terze generazioni. Si parla di lavoro, di soldi, di come si è ottenuta l'ultima raccomandazione per migliorare la propria carriera, di chi è ora la persona giusta da curare se si vuole far arrivare un messaggio al presidente, al ministro, all'ambasciatore di turno. Si scherza su come si è riusciti ad ottenere una targa diplomatica per la propria auto anche se non se ne aveva propriamente diritto, di come poter ottenere quel posto all'unione europea e quell'altro alle nazioni unite. Taglio corto: "Vi supplico cambiamo argomento", è triste vedervi vecchi. Poi chiedo di uscire, facciamo una passeggiata, respiriamo aria fresca. Ritorno felice e amo ancora la mia ospite!

*da Guida ufficiale di Greco milanese, Milano, 1912. Milano, Stab. Tip. dell'Unione cooperativa. p. 143. Nota: La guida è arricchita da una piantina e da alcune fotografie di scorci caratteristici del paese.