The world may be known Without leaving the house;
The Sky may be seen Apart from the windows.
The further you go, The less you will know.

Saturday, March 27, 2010

election days...

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"Due piccoli intellettuali di provincia, questo erano, e cioè la cosa più triste e più stramba che possa esistere sulla terra. Non avevano mai visto niente, lui Cenzo Rena era stato in America, a Constantinopoli e a Londra, e sapeva cos'era l'Italia a guardarla dal Messico o da Londra, una pulce era l'Italia, Mussolini la cacca d'una pulce." [...]
Da Tutti i nostri ieri di Natalia Ginzburg
Giulio Einaudi Editore, 1952
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Friday, March 26, 2010

The Prophet, just another review...

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Il Profeta di Jacques Audiard scuote, scombussola, come di norma deve un buon thriller.

L'orizzonte è ristretto, le alte mura del cortile lo contengono, i rapporti umani sono forzati, più del solito.

Tahar Rahim interpreta Malik El Jebna (Angelo del Formaggio, in traduzione...) un diciannovenne che si becca sei anni di galera, per qualcosa di poco conto. Nelle due ore e mezza in cui lo vediamo evolve alternando l'umano, l'angelico e il bestiale. Lo spettatore sprofonda nella corruzione, nella violenza, nella perversità. Il doppio, il triplo e il quadruplo fine. Tutto è condito da una buona dose di veridicità (quasi tutte le comparse sono dei veri carcerati) e da tante lingue e dialetti. Malik oltre a imparare ad uccidere, in carcere impara a cucire i jeans, a leggere e scrivere, e a parlare corso. Angelicamente. Da gangster.

Un mondo nel mondo, una legge fuori dalla legge, tutto è guasto e nessuno è risparmiato: giudici, avvocati, guardie, predicatori e devoti praticanti.

Non c'è spazio per alcuna catarsi, sei anni passano e Malik esce di galera trasformato da Angelo (ملاك) in Re (ملك) la pronuncia in arabo è quasi identica, re della malavita e della criminalità organizzata.
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Da qui in giù pericolo di spoiler...

A Malik, timido diciannovenne, per poter continuare a vivere viene chiesto di uccidere. Lui non ha dubbi: "io non uccido un c... di nessuno". Chiede un colloquio con il direttore del carcere, impossibile, uno con il capo della sezione carceraria in cui è rinchiuso, impossibile. In risposta: uno squadrone di picchiatori, capitanato da una guardia, entra nella sua cella al grido di "Qui la legge siamo noi", mette in chiaro alcuni concetti di base sulla convivenza in gattabuia stringendogli un sacchetto di plastica sul volto fino a quasi soffocarlo, e Malik decide che vuole continuare a vivere. Uccide. Risparmio i dettagli. Ucciderà di nuovo in una delle scene che mi hanno più colpito: una carneficina all'interno di un'automobile. Malik riemerge, assordato, da sotto a quattro cadaveri che deve letteralmente togliersi di dosso. Il dramma di Audiard però non vira mai al pulp.

L'apparente buona condotta permette a Malik di ottenere dei permessi di libertà controllata di dodici ore, alcune di queste uscite offrono suggestivi squarci di vita: il bucolico ritiro provenzale del mafioso di turno, Malik che bagna i piedi nel mare, Malik che prende per la prima volta un aereo, Malik che cena a casa di un ex-compagno di prigione in un contesto familiare. E' il Malik angelo.

Rimane il dubbio sulla sua metamorfosi, inconstistente l'attribuzione del titolo di "profeta". Malik è perseguitato dal fantasma dell'uomo che ha dovuto uccidere per vivere e questo apparentemente gli dà la possibilità di prevedere alcuni eventi. Nulla di più. Alcuni riferimenti al non mangiare halal, al Corano, a Maometto sembrano proprio un po' forzati. Come l'imperativo إقرأ, Leggi!, che compare a un certo punto sullo schermo... out of the blue.

Di positivo, durante tutto il film, la totale assenza di giudizio verso ognuno dei caratteri rappresentati. Non male il doppiaggio in italiano, avrebbero solo potuto lasciarci ascoltare un po' più di corso.
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Monday, March 22, 2010

Un punto fermo | A stand-still

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It surprises you a little, it bores you a little: Ahmad Abdallah’s Heliopolis – هليوبوليس . His debut as director.

You get surprised as you expect something different when you think of Egyptian films. Instead it feels close to Western sensitivity, or better European. Ahmad Abdallah dares criticizing today’s Egypt, its political situation and he does it almost whispering. He shows you life in the absurd thirty years’ long “state of emergency”. He does it quietly, no desperate outcry, a modest budget and lots of nostalgia.

You get bored expecting until the end of the film that something might happen, that something might change. But no. Everything is languishing, everything is discouraging.

Khaled Aboul Naga, handsome celebrity in Egypt, is Ibrahim: Ain Shams University graduate documenting with his small digital video camera what remains of Heliopolis, an old district in Cairo that is losing (or has now lost) its peculiar cosmopolitan flavour. Distant in memory are the times in which Arabs shared their daily way of life with the British, the French, the Italian, the Belgian, the Greek and the Armenian communities, and those who saw all this fade away now regret it. Glorious and decadent buildings of the beginnings of last century are what is left to Ibrahim for filming and as only remnants of that past.


In the same place, during the same day, we witness the ordinary existences of few other characters of which each journey lightly touches that of the others. A couple looking for too modern a fridge for a flat they still have to find, a Coptic doctor about to emigrate to Canada, a three stars funduq employee who ran away from the poverty of her countryside village, a sentinel that we never see leaving, if not for a few steps, his sentry box. He is silent, his gaze into the void, listening to Fayrouz and eating chapati bread and fuul. He prays on a flattened carton serving as a sajjada (سجادة). He befriends a stray mutt and will have to leave it to its destiny. He’s the character I most loved. Night comes he has to jump on a military van, already packed with his brothers in arms, to reach the barracks.


A passive and resigned universe, a very Italian Egypt, we see. Nowadays Italy is very Egyptian.
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Un po' stupisce, un po' annoia questo Heliopolis - هليوبوليس di Ahmad Abdallah. Film di esordio.

Stupisce perché ti aspetti qualcosa di diverso quando pensi a un film egiziano. E invece ti ritrovi molto più vicino a una sensibilità occidentale, o ancor più a una europea. Ahmad Abdallah ha il coraggio di criticare l'Egitto di oggi, la situazione politica e di farlo in maniera quasi sussurrata. Ti mostra la vita di chi è costretto a fronteggiare quotidianamente le assurdità di uno "stato d'emergenza" che dura da oltre trent'anni. Lo fa pacatamente, senza alcun urlo disperato, con un budget modesto e tanta nostalgia.

Annoia perché ti aspetti fino alla fine del film che qualcosa accada, che qualcosa cambi. Invece no. Tutto stagna, tutto frustra.

Khaled Aboul Naga, belloccio e noto attore egiziano, interpreta Ibrahim: studente di Ain Shams che vuole documentare con la sua piccola cinepresa digitale quello che resta di Heliopolis, antico quartiere del Cairo che sta perdendo (o che ha ormai perso) il suo peculiare cosmopolitismo. Sono lontani i tempi in cui gli arabi convivevano con le comunità britanniche, francesi, italiane, belghe, greche ed armene e chi le ha viste dissolversi oggi le rimpiange. A Ibrahim non resta che filmare meravigliosi e decadenti edifici degli inizi del secolo scorso che soli sono rimasti a testimonianza di quel passato.

Nel medesimo luogo, durante la medesima giornata, assistiamo alle banali esistenze di pochi personaggi la cui storia lievemente sfiora quella degli altri. Una coppia di fidanzati alla ricerca di un frigorifero troppo moderno per un appartamento che ancora devono affittare, un medico copto in procinto di emigrare per il Canada, la receptionist di un tre stelle scappata dalla miseria del suo villaggio di origine, un poliziotto coscritto che non vediamo mai allontanarsi, se non di qualche passo, dalla sua garitta. E' silenzioso, lo sguardo perso nel vuoto, ascolta Fayrouz mangiando pane rotondo e foul. Prega su uno scatolone, sventrato e sgualcito, aperto, a mo' di sajjada (سجادة) e fa amicizia con un bastardino randagio che dovrà abbandonare al suo destino. E' il personaggio che ho adorato di più. Fattasi sera è costretto a salire su un furgone, già zeppo di colleghi, per raggiungere la caserma.

Un universo passivo e rassegnato al suo destino quindi, un Egitto molto italiano. Un'Italia molto egiziana quella di oggi.
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Friday, March 19, 2010

Polvere, legno, pietra...

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Polvere, legno, pietra, mattone, luci, colori, affreschi scrostati, muri che si sbriciolano. Tanta memoria, tante storie e quasi duecentocinquanta fotografie. Un'atmosfera rarefatta.

Chiude fra pochi giorni una meravigliosa mostra fotografica che ha avuto tanta meritata fortuna e che io ho potuto felicemente visitare in più occasioni.

Sud-Est non è memorabile soltanto per gli scatti di Steve McCurry, sono il contesto e il riuscitissimo allestimento presso Palazzo della Ragione a renderla così speciale che per una volta ci pare davvero di essere in Europa a Milano.

Queste foto, queste storie che galleggiano nel maestoso salone, si fanno attraversare dai visitatori come si stesse nuotando in un mare. Nello spazio ognuno porta la sua storia e ogni storia rappresentata, ogni foto, vi si fonde. E' un sentimento di unione e di armonia che ho provato ogni volta visitando questa mostra, la prima (a pochi giorni dall'inaugurazione) e l'ultima (oggi) in particolare. In particolare quando l'ho visitata da solo. Da solo ho assaporato esattamente quello che assaporo quando sono in viaggio, da solo. Ogni foto è un dono, il dono di un viaggio. Come in ogni viaggio c'è una parte di rischio, una parte di pericolo, una parte di gioa, una parte di paura, una parte nota e una ignota. C'è un incontro a volte, altre un'incomprensione. A me è sempre sembrato di viaggiare andando a visitare questa mostra fotografica, non solo nello spazio ma anche nel tempo. Alcuni luoghi sono lontani, l’Afghanistan, la Birmania, l’India, il Tibet, e ci mostrano che anche il tempo può essere lontano, che non scorre ovunque in ugual maniera. In alcuni luoghi pare fermo e ritroviamo il fuoco per scaldare e illuminare, la terra vera e non l'asfalto sotto i piedi sempre nudi, i panni e i tessuti per coprirsi, i sorrisi e gli occhi che brillano ché dove il tempo è corso troppo in avanti sono spariti. Troviamo anche guerre e infanzia rubata fra questi viaggi, distruzione e morte. Il silenzio della gioia e quello della disperazione, della malattia. Quello della grande dignità che i tanti volti ci riportano, della serenità di fronte all'ingiustizia. (Siamo molto lontani dalle facce di chiulo alle quali ci hanno abituato le nostre attuali italiche cronache).

Non c'è un catalogo, solo un giornalone, un po' cupo, dove i signorotti locali non hanno mostrato ritegno: due pagine di apertura dedicate ai colophon e agli sponsor, due successive raccolgono le chiacchiere di ben quattro papaveroni e altre due con altri quattro interventi che non ho letto. Chiudono i ringraziamenti sviolinanti della curatrice della mostra.
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Marseille, France, 1989. (C) All rights reserved Steve McCurry
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Wednesday, March 10, 2010

Oportet studuisse...

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Corrono leggere, fresche, a tratti brillanti, le immagini di An Education.

Un trentenne ama la vita facile e le ragazzine al limite dell'age of consent; un'adolescente ama la musica e vuole bruciare le tappe: con talento, intelligenza e passione; un'insegnante di letteratura inglese dà il meglio di sé per la sua "crème de la crème"; una coppia di genitori insicuri, mediocri ma comprensivi; una coppia di amanti ben assortiti...

Menzogna e tradimento si perpetrano fra coppe di champagne, furti di oggetti d'arte, corse di cani, jazz club e romantici fine settimana parigini. Nessuno ne fa una tragedia. Nel 1961 tutti sono molto maturi.

Dopo la sbandata il ritorno sulla retta via.

An Education resta sempre lieve ed elegante, infastidisce un po' il richiamo audrey-hepburniano troppo smaccato che si alterna, assurdamente, a quello favoloso di Amélie. Ricercata la colonna sonora.
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Sunday, March 07, 2010

Cose nuove...

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E' bello tenersi aggiornati, si scoprono sempre cose nuove...

Ad esempio voi sapevate che la Repubblica Araba di Siria è una monarchia ashemita? Bashar al-Assad e Abdullah II di Giordania si scoprono fratelli, non solo di nefandezze... ma anche di sangue, sciiti-alauiti e sunniti! E se su qualche quotidiano arabo leggessimo: "La Francia, monarchia borbonica..." oppure "In Germania, la Casa regnante dei Braganza...". Interesting...
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Più appropriato potrebbe essere stato: "La minoranza sciita-alauita al governo, ..."
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Segni particolari: bellissimo...

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Sì, di norma è bello, a volte bellissimo, il prostituto che si propone, nelle zone turistiche di nord Africa e Medio Oriente, alle donne e ragazze occidentali, all'occorrenza pure agli uomini occidentali, e ha un qualche impiego di copertura: animatore, cameriere, istruttore di vario genere etc.

"The Arabs are notoriously frank and unashamed about sexual transactions, which are regarded in a purely practical light, as a convenience, one need meeting another. Sexual opportunity in the Middle East is highly proscribed, cynical, fleeting, purely reflexive and exploitative." (da Cleopatra's Wedding Present, Robert Tewdwr Moss).

Perché volere di più allora?

Da qualche mese mi sono imbattuto in un blog, Ma che amore d'Egitto..., che si occupa di dare spazio e voce per lo più alle "deluse d'Africa": quelle ragazze o donne che sono cascate, per svariate ragioni, nella trappola, nella rete tesa ad arte dallo sharmut (شرموط) di turno, e che si ritrovano sedotte e abbandonate, a cercare di capire perché sia toccato proprio a loro. L'illusione è provocata da una lunga serie di malintesi che fa attribuire, a signore e signorine, significati ad accadimenti e circostanze che hanno ben poco a che vedere con la verità sulle intenzioni dei loro playboy mediorientali. Loro, i belli, pelle color dell'oro, individuano con facilità le più vulnerabili, mettono in mostra chiappe sode, sopracciglia folte e occhioni profondi, le intontiscono quanto basta con parole al miele da romanzetto harmony ed è fatta. Una fonte di reddito in più, finché dura. 

Nessuno dei due crede ai romanzetti harmony ma il giochino funziona: il maschio orientale ci mette un po' di poesia, un po' di romance (così da non sentirsi proprio un battone, un bezness), l'occidentale, convinta che lui sia soltanto un po' esotico, è totalmente ignara dell'abisso culturale e sociale che la separa dal suo habibi, altre volte finge (con se stessa) di non sapere, di non capire. Per alcuni fa la finta ingenua e gioca col fuoco.  

Questa scarsa conoscenza reciproca farà di entrambi due vittime. Lei spesso assetata di tutto, lui improvvisamente onnipotente. Entrambi dipendenti. Lei che comincia l'andirivieni Europa-Africa che ha fatto ricche le agenzie di viaggi, lui improvvisato manager deve gestire un'agenda ricca di arrivi e partenze internazionali. Peché lui di una turista sola non può campare, ne deve avere tante, deve ottimizzare, in fondo tutti sanno che un anno è fatto da dodici mesi e cinquantadue settimane. E queste nationality (così pare chiamino le straniere) "si fanno vedere quando va bene solo una settimana ogni quattro mesi" e nel frattempo loro dovrebbero vivere di aria fresca e di romantica fedeltà...? Se necessario avrà tante schede telefoniche, tanti nomi diversi, tante biografie inventate, ognuna che si accomodi meglio alle esigenze psicologiche dell'innamorata di turno. E per una che lo molla, perché prima o poi viene sempre mollato, ne deve avere dieci di scorta e così via.

Sopra ogni cosa è triste constatare che ragazze intelligenti ci mettano tanto a capire e a disintossicarsi.

Ognun* è qui per imparare la sua lezione.
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Saturday, March 06, 2010

balle, balle, balle da capogiro...

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[...]
aaah, sensazione unica
aaah, voglia di restare qui
aaah, voglia di ballar con te
ballo, ballo, ballo
da capo giro
ballo, ballo, ballo
senza respiro
ballo, ballo, ballo
m’invento un passo
che fa così, fa così, fa così...
pazza, pazza, pazza
su una terrazza
[...]
ballo, ballo, ballo
non m’innamoro
ballo, ballo, ballo
son prigioniera
ballo, ballo, ballo
[...]
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(Gianni Boncompagni-Franco Bracardi, interpretata da Raffaella Carrà)


La verdad es que no entiendo nada de toros...
pero sé mucho de mujeres desesperadas.
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(Marco a Lydia in Hable con Ella di Pedro Almodóvar)

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Wednesday, March 03, 2010

A day off...

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I took a day off today, exhausted by the humdrum and pressure from the daily work routine and in bad need of a break from my cumbersome and at times embarrassing colleague...

I did nothing much special: woke up at a reasonably convenient hour, worked a little from home: emails and some phone calls, met a member of the highbrow milanese élite: had a talk and a cappucino in a unmentionable bookstore café, had a walk, went to my Egyptian barber's for a haircut and a chat, came home and had a long wished for Skype sitting with my Dutch friend.

It's been a normal day, so why do I have this feeling there was something so memorable about it?


(c) F.S.C.
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