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Si conobbero verso la fine del mese di Ramadan del 1420 (fra il mese di dicembre 1999 e il gennaio 2000 dell'altro calendario). Erano in moschea per l'iftar e lui aveva cucinato per tutti. Lui era il nuovo cuoco. Era da poco arrivato a Milano. Non parlava neppure una parola di italiano. L'altro ricominciava da poco a studiare l'arabo. Scambiarono qualche parola. No, scambiarono qualche sguardo e tanti sorrisi. Scambiarono numero di cellulare.
Poche settimane più tardi l'altro lo invitò a casa da lui. Un palazzo borghese, della Milano bene, dove gli stranieri non sono ben visti. A distanza di qualche anno gli disse che quella prima volta, salendo le scale, provava paura, era intimorito. L'altro decise apposta di non aprire la grata dell'ascensore, le portine di legno cigolanti, l'odore di cera. Doveva essere un'ascesa lenta, accedere al suo mondo. Per ragioni diverse entrambi tremavano un po' nel salire quelle ampie scale. Non sapeva davvero chi fosse, cosa volesse, questo ragazzo italiano che lo invitava a casa sua, con la scusa di imparare l'arabo. Mezz'ora dopo sul letto si stringevano, si baciavano.
Così cominciò, così andò avanti per i successivi quattro anni.
La prima grande crisi: quando si presentò dall'altro, potevano essere le sette di sera, era stanco, aveva lavorato tanto come suo solito, con una piccola sacca, c'erano le sue cose. Ci stava provando, voleva trasferirsi a casa sua in pianta stabile. Non gli bastavano più i fine settimana, o qualche notte a caso. Era stanco di condividere una camera con altri dieci maleodoranti egiziani. Lui eri diverso da loro. Di un altro ceto. L'altro lo guardò turbato. Non sapeva nulla di quello che era accaduto. Lo guardava sorpreso. Non capiva perché. Accese la tv. Era l'11 settembre 2001. Il suo volto si illuminò a vedere quelle immagini. Era divertito. I due grattacieli in fumo. Rideva come un matto. Rideva. Pensava che l'altro pensasse che lui in qualche modo avesse delle colpe in quanto arabo e che per questo ora era arrabbiato con lui. Non era esattamente così. Comunque scelse proprio la giornata sbagliata per cercare di trasferirsi dall'altro.
La loro relazione andò avanti. Liberamente. Si usavano a vicenda? Lui piaceva all'altro, ma nulla di più. Fra uomini è così. Non si possono fare sogni, promesse, tipo: ti amo, sei tutto per me, ti voglio sposare, avremo dei figli e via dicendo. Fra uomini si è più pratici. Per forza di cose. L'onestà, la lealtà, la franchezza però devono esserci anche fra uomini. L'altro era in buona fede, lo è sempre stato con lui e per assurdo lo è ancora. Dopo tutto quello che è stato.
Si accorse che gli era infedele dal suo lessico. Cominciò a sfoggiare parole di una indicibile volgarità. Lui non poteva capirlo, non poteva rendersene conto che quei "progressi linguistici" che amava mettere in mostra non potevano essere che il frutto di rapporti intimi con personaggi di infima levatura. Espressioni dialettali persino. Non disse nulla, in fondo non erano propriamente fidanzati. Lui non gli apparteneva e certo neppure l'altro desiderava appartenergli, alla araba. Però gli piaceva ancora e questo lui lo sapeva. E se ne approfittava.
L'altro si stancò. Più si integrava con gli italiani, più perdeva la sua gentilezza, i suoi modi mediorientali, la sua apparente innocenza. Si faceva gioco dell'altro. Lo derideva. Il suo candore, la sua trasparenza lo infastidivano. L'altro si fece forza. Lo mandò finalmente al diavolo.
Per mesi non rispose più alle sue chiamate. E quando bussava alla porta l'altro non apriva. Sapeva che eri lui. Conosceva i suoi orari. Il suo palazzo non gli incuteva più timore. Suonava al citofono dei vicini che gli aprivano il portone. Sapevano ormai che quello del quarto piano aveva un amico straniero, si fidavano delle sue buone maniere e del suo bell'aspetto. Rispettabile. Un aspetto distinto. Un bell'uomo. Un bel sorriso. Era ormai il 2004.
Passò tutto il 2005 e buona parte del 2006. L'altro perse tutte le sue tracce. Non vi fu più alcun suo segno di vita. Né lo cercò. Pensava sempre a lui però. Lo aveva stregato. Non ebbe alcuna relazione nel frattempo. Niente di niente. Pensava sempre e solo a lui. Vagheggiava di lui, del suo fantasma. Vinse una borsa di studio per migliorare l'arabo, scelse la sua città. Quattro milioni di abitanti. Impossibile incontrarsi. E poi lui era ancora in Italia, pensava.
Settembre 2006. A poche settimane dalla partenza, squilla il suo telefono. Era lui. Diceva che lo amava. Che nel 2005 era tornato a casa. Aveva lasciato l'Italia. Come sempre l'altro non gli mentì. Glielo spiegò che di lì a poco si sarebbe trovato per tre mesi nella sua città. Per studiare arabo all'università. Lo invitò a stare da lui. Senza esitazioni. Dopo tutto quello che l'altro aveva fatto per lui, era felice di poter ricambiare con la sua ospitalità. Accettò. Dopo aver posto alcune condizioni.
Rivederlo nel suo paese, nella sua città, pareva un sogno. Glielo aveva promesso, quando ancora le cose andavano bene fra loro, che un giorno gli avrebbe fatto visitare la sua città. Adesso era arrivato il suo turno. Era felice di fargli vedere come viveva lui. La sua casa. Gli piaceva poter parlare di nuovo l'italiano.
Verso le tre così, dopo un tè alla menta, gli dice che sta per rincasare suo figlio. Non gli crede. Gli è sempre piaciuto fare questi scherzi. Alle tre e mezzo del pomeriggio bussa alla porta il più dolce dei ragazzini, sì e no dodici anni. Lo chiama baba e chiede chi sia l'altro. E' diffidente all'inizio, un amico del papà che viene dall'Italia e che parla la sua lingua. All'improvviso un ospite a casa. Poco dopo gli dice che stanno per arrivare Aziza e Atiya, le sue due altre figlie, la maggiore e la più piccola. No. Ha anche un quarto figlio, nato un anno prima. Poco prima del divorzio. Tornato dall'Italia, sua moglie non lo ha più voluto. Aveva capito che gli piacevano gli uomini. Un po' troppo più del dovuto. I primi tre figli però sono rimasti a lui, questo è il codice della famiglia nel mondo arabo.
E l'altro? Quattro anni insieme e gli tenne nascosto questo di sè. Che era un marito e un papà. Aveva addirittura capito che se l'altro avesse saputo che era "una sposata" lo avrebbe preso a calci nel sedere prima che se ne potesse rendere conto. Le cose però ormai erano fatte. Aveva rinunciato alla camera nel pensionato universitario. La mattina dopo, del secondo giorno, i suoi figli andati a scuola, fanno l'amore, sul tappeto. Quando il muezzin comincia a intonare l'adhan, la chiamata alla preghiera, dice che devono interrompere, per rispetto. L'altro e suo figlio diventano inseparabili. Alim non è stupido, qualcosa l'ha capita dell'amicizia di suo padre.
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Oggi lui ha provato a chiamarlo due volte. Questa volta è l'altro a non rispondere. Lo chiamerà fra poco. Ormai è sera. Sono passati dieci anni. Sono rimasti amici. A modo loro. Non è più andato a trovarlo. E lui gli chiede la lettera d'invito necessaria per tornare in Italia. L'altro occupa un buon posto, lui lo sa, un visto potrebbe farlo rilasciare in giornata. No.
Ha tradito la sua fiducia, lo ha giudicato, lo ha deriso. E' stato difficile perdonare. Imperdonabile sarebbe ricascarci. Eppure fra poco alzerà il telefono e proverà a chiamarlo, è un po' più tardi dove sta lui per via del fuso orario, gli piace salutarlo, parlare con suo figlio che ora deve essere diventato proprio un bel ragazzo, furbo però, come il papà. Salutare Atiya la più piccola e Aziza che si era presa una bella cotta per lui!
Sono passati dieci anni giusti da quel mese di Ramadan. E ancora l'idea di lui lo affascina. Il mistero dei suoi modi, della sua lingua, della sua terra. Spera che avranno un'altra chance. Spera che avranno un'altra vita. Non glielo dice mai però:
...أنا بحبك يا أنس