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Non mi aspettavo granché dai Paesi del Golfo che per ragioni di lavoro ho dovuto visitare. Kuwait e Qatar per quanto ancora conservino alcune tipicità aspirano ad ogni costo ad assomigliare ai vicini Emirati Arabi Uniti. A Dubai la venduta, in particolare. Che infinita tristezza. Ma cominciamo con ordine. Kuwait City è una città decisamente brutta. Non un centro, non un particolare che la contraddistingua, tanti grossi isolati suddivisi da stradoni a sei corsie per senso di marcia. Sono gli americani (del nord) ad averla ricostruita, sul modello di Los Angeles pare, i palestinesi ad averla tradita, gli iracheni ad averla data alle fiamme, infami. Oggi, appollaiati su una bolla di gas e su un lago nero, di kuwaitiani originari il visitatore ne vede ben pochi, così impegnati come sono a rendere se possibile ancora più cementificato il loro martoriato paese. Ex-beduini da una parte, pescatori, mercanti e commercianti dall'altra, fra le mani una ricchezza non sudata che rende grossolani, lo si sa, abbandonati i datteri l'hanno avuta vinta i Macburger halal. Brutta impressione visitare un paese che, ben lungi dall'aver preservato le sue radici, è stato consegnato nelle mani di forestieri. Il 35% dei 2.800.000 abitanti del Kuwait è arabo, il restante 65%, quello dei commercianti, dei tassisti, dei benzinai, dei camerieri e così via, è costituito da malinconici e indolenti pakistani, cingalesi, indiani e filippini. Considerati ovviamente dalla locale e inurbata "élite" beduina, cittadini di serie B. Qatar, vedi come sopra con la differenza che sussiste uno smaccato tentativo di fare di Doha una capitale occidentale: di giorno città d'affari, di notte capoluogo walt disney del divertimento, col suo antico centro storico ricostruito ad arte, souq waqif incluso. Da scordare il fascino della chiamata alla preghiera, il sorriso e lo sguardo complice del venditore di succhi di frutta, la calma pomeridiana etc. Ricordano, invece, tanti suv e tanti moderni centri commerciali le nostre paderno dugnano e i nostri fiordalisi… Di positivo, perché tanto di positivo comunque c'è, come derivato dall'adesione massiccia ai valori del materialismo occidentale: una (almeno apparente) indipendenza dal pesiero dogmatico e conservatore dell'islam wahhabita, che impera da queste parti, e la convivenza pacifica, seppur non paritaria, fra persone di molte diverse etnie.
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Saturday, November 29, 2008
Friday, November 28, 2008
Di alcune giornate…
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Conosco più o meno casualmente, per ragioni di lavoro, Monsieur A.B.A. Sin da subito, quando il Console generale di A… fa il suo nome, qualcosa mi colpisce. Lo aggiunge telefonicamente a una lista di altri nomi di persone che di lì a qualche giorno avrei dovuto incontrare: soliti nomi arabi, Mahmoud di qua, Mohammed di là etc. È un nome particolare invece questo che aggiunge ora, non perché lo abbia già sentito. Pieno di vocali, pieno di “a”, mi piace e non ne conosco la ragione. Intuisco che dietro di esso si cela una persona singolare. Non i soliti soggetti che per lavoro mi capita di incontrare. Faccio una cosa che non faccio mai in questi casi: inserisco questo nome in un noto motore di ricerca, e trovo, quasi me lo aspettassi, centinaia di riscontri: articoli, pubblicazioni, testi, partecipazione a incontri e conferenze, parecchie delle quali in Sicilia… coincidenze. Mi dico: “Finalmente una persona di spessore, una volta tanto, un consulente vero”. Non ci penso più. Incontro Monsieur A.B.A. all’interno di una cornice istituzionale, giocando una parte, io, che ormai ho imparato a recitare alla perfezione. È quanto richiesto dal mio lavoro, dalla mia professione. Sorrido gentile, sono formale ma cordiale, impersono questo ruolo con così magistrale naturalezza, oramai, che io stesso non so più capire dove sta il confine fra quel garbato signore, dall’aspetto giovanile (dentro di sé e dentro al completo scuro non proprio a suo agio, il collo stretto dall’indispensabile cravatta), e il mio vero me che più spesso che mai chiede la libertà! È una giornata di sole, le due guardie all’ingresso, in uniforme di rappresentanza, mi sorridono, mi conoscono, sono vari anni che lavoro dove lavoro. Degli appositi valletti, pagati per questo, potrebbero ricevere i miei ospiti all’entrata e condurli nella stanza dove io comodamente sarei ad attenderli, ma a me così non piace, sebbene quest’ultima sia l’abitudine a Palazzo. I miei ospiti, per quanto possibile, desidero accoglierli e farli sentire subito a casa pur nel rispetto dell’usuale protocollo tanto caro all’Istituzione per la quale lavoro e che spesso rappresento. La delegazione composta da cinque persone si presenta al completo. Monsieur A.B.A., per ultimo, un po’ trafelato, mi stringe la mano. Mi risulta simpatico. La riunione di lavoro dura molto più del previsto e a causa di altre ragioni sono completamente solo a condurre questo primo incontro. Noto in diversi momenti che Monsieur A.B.A. oltre a lasciarsi distrarre da arazzi, specchi barocchi e imponenti quadri del primo ottocento, mi osserva attentamente, quasi mi scruta. Sorrido. Due intense giornate di incontri, riunioni e sopralluoghi si succedono accompagnando la medesima delegazione. Trasporti, energia, incenerimento dei rifiuti solidi urbani, illuminazione pubblica, fiere e commercio: i temi. Il terzo giorno, un giovedì, sarà soltanto Monsieur A.B.A. a rimanere in città per il programma culturale. Visitiamo, accompagnati dalla mia guida preferita (una rossa di capelli, spigliata, che improvvisa molto con il francese, ma in compenso parla bene il brasiliano), il Museo di Arte Antica e le Collezioni del Castello Sforzesco. Mi commuovo come sempre di fronte alla Pietà Rondanini, questa volta non sono l’unico. Visitiamo poi una mostra alla Triennale e il cosiddetto Museo del Design. Visitiamo brevemente Santa Maria presso San Satiro, in via Torino, soffermandoci ad osservare il suo celeberrimo finto presbiterio, disegnato dal Bramante. Facciamo sera e ci concediamo un aperitivo al Caffè Vergnano 1882, in via Speronari. Il mio ospite mi offre dello spumante, mi stupisce. Visitiamo quindi due mostre a Palazzo Reale che il giovedì è aperto fino a tardi, e la Sala delle Cariatidi per quanto chiusa al pubblico. La mia giornata di lavoro dovrebbe così concludersi ma accetto volentieri l’invito a cena di Monsieur A.B.A. che fiducioso lascia a me la scelta del ristorante. Questa non può che ricadere sul Victoria di via Clerici. È un ristorante al quale lego tanti ricordi, ora uno di più, ed è un luogo che per anni si sta dimostrando fedele a se stesso, cosa più che rara a Milano. Parliamo molto e facciamo davvero tardi. Due taxi porteranno ciascuno di noi rispettivamente in albergo e a casa.
Conosco più o meno casualmente, per ragioni di lavoro, Monsieur A.B.A. Sin da subito, quando il Console generale di A… fa il suo nome, qualcosa mi colpisce. Lo aggiunge telefonicamente a una lista di altri nomi di persone che di lì a qualche giorno avrei dovuto incontrare: soliti nomi arabi, Mahmoud di qua, Mohammed di là etc. È un nome particolare invece questo che aggiunge ora, non perché lo abbia già sentito. Pieno di vocali, pieno di “a”, mi piace e non ne conosco la ragione. Intuisco che dietro di esso si cela una persona singolare. Non i soliti soggetti che per lavoro mi capita di incontrare. Faccio una cosa che non faccio mai in questi casi: inserisco questo nome in un noto motore di ricerca, e trovo, quasi me lo aspettassi, centinaia di riscontri: articoli, pubblicazioni, testi, partecipazione a incontri e conferenze, parecchie delle quali in Sicilia… coincidenze. Mi dico: “Finalmente una persona di spessore, una volta tanto, un consulente vero”. Non ci penso più. Incontro Monsieur A.B.A. all’interno di una cornice istituzionale, giocando una parte, io, che ormai ho imparato a recitare alla perfezione. È quanto richiesto dal mio lavoro, dalla mia professione. Sorrido gentile, sono formale ma cordiale, impersono questo ruolo con così magistrale naturalezza, oramai, che io stesso non so più capire dove sta il confine fra quel garbato signore, dall’aspetto giovanile (dentro di sé e dentro al completo scuro non proprio a suo agio, il collo stretto dall’indispensabile cravatta), e il mio vero me che più spesso che mai chiede la libertà! È una giornata di sole, le due guardie all’ingresso, in uniforme di rappresentanza, mi sorridono, mi conoscono, sono vari anni che lavoro dove lavoro. Degli appositi valletti, pagati per questo, potrebbero ricevere i miei ospiti all’entrata e condurli nella stanza dove io comodamente sarei ad attenderli, ma a me così non piace, sebbene quest’ultima sia l’abitudine a Palazzo. I miei ospiti, per quanto possibile, desidero accoglierli e farli sentire subito a casa pur nel rispetto dell’usuale protocollo tanto caro all’Istituzione per la quale lavoro e che spesso rappresento. La delegazione composta da cinque persone si presenta al completo. Monsieur A.B.A., per ultimo, un po’ trafelato, mi stringe la mano. Mi risulta simpatico. La riunione di lavoro dura molto più del previsto e a causa di altre ragioni sono completamente solo a condurre questo primo incontro. Noto in diversi momenti che Monsieur A.B.A. oltre a lasciarsi distrarre da arazzi, specchi barocchi e imponenti quadri del primo ottocento, mi osserva attentamente, quasi mi scruta. Sorrido. Due intense giornate di incontri, riunioni e sopralluoghi si succedono accompagnando la medesima delegazione. Trasporti, energia, incenerimento dei rifiuti solidi urbani, illuminazione pubblica, fiere e commercio: i temi. Il terzo giorno, un giovedì, sarà soltanto Monsieur A.B.A. a rimanere in città per il programma culturale. Visitiamo, accompagnati dalla mia guida preferita (una rossa di capelli, spigliata, che improvvisa molto con il francese, ma in compenso parla bene il brasiliano), il Museo di Arte Antica e le Collezioni del Castello Sforzesco. Mi commuovo come sempre di fronte alla Pietà Rondanini, questa volta non sono l’unico. Visitiamo poi una mostra alla Triennale e il cosiddetto Museo del Design. Visitiamo brevemente Santa Maria presso San Satiro, in via Torino, soffermandoci ad osservare il suo celeberrimo finto presbiterio, disegnato dal Bramante. Facciamo sera e ci concediamo un aperitivo al Caffè Vergnano 1882, in via Speronari. Il mio ospite mi offre dello spumante, mi stupisce. Visitiamo quindi due mostre a Palazzo Reale che il giovedì è aperto fino a tardi, e la Sala delle Cariatidi per quanto chiusa al pubblico. La mia giornata di lavoro dovrebbe così concludersi ma accetto volentieri l’invito a cena di Monsieur A.B.A. che fiducioso lascia a me la scelta del ristorante. Questa non può che ricadere sul Victoria di via Clerici. È un ristorante al quale lego tanti ricordi, ora uno di più, ed è un luogo che per anni si sta dimostrando fedele a se stesso, cosa più che rara a Milano. Parliamo molto e facciamo davvero tardi. Due taxi porteranno ciascuno di noi rispettivamente in albergo e a casa.
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Saturday, November 22, 2008
Mancavano solo i ferrero rocher…
…al pranzo offerto da un alto funzionario d'ambasciata di un paese estero di recente visitato.
Tutto era perfetto: i variopinti ospiti messi insieme per mantenere rumorosa la serata; la cucina appassionatamente italiana (con una strizzatina d'occhio ai vicini d'oltralpe… quella quiche al salmone…), e il menu religiously correct: solo pesce per non creare inutili imbarazzi all'ebreo e alla musulmana; l'accurata scelta musicale; la generosa e semi-clandestina abbondanza di alcolici; l'educata servitù e per finire il prematuro albero di natale.
Peccato per la strisciante ineleganza, la sommessa tracotanza degli astanti, ognuno impegnato a non essere se stesso per paura di mostrare qualche profondità, qualche debolezza forse? Ma perché temere? Architetto, se sono vent'anni che ti godi la vita da espatriato in un paese "difficile" significherà pure che gli utili li sai fare, quindi perché creare questa maschera? E tu che ti sei accaparrata questo marito "dans la carrière", pensavi che di punto in bianco saresti diventata raffinata? …
Per un motivo o per l'altro spesso mi trovo a dover assistere e raramente a poter essere, e mi ostino a non volermene fare una ragione.
Saturday, November 08, 2008
Di una certa Milano...
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Una sera alla "festa di compleanno" di C. Tutto bene bien sûr, nella Milano che conta nulla è fuori posto, e tutto è all'insegna della discrezione e dell'understatement, mai una cosa di troppo, mai una cosa di meno. Ospite: il fior fiore della fighetteria milanese. I figli delle famiglie giuste, quelle che contano davvero perché non si fanno mai vedere o sentire, che non si espongono, che non dicono nulla di sé: agiscono e basta. Muovono e smuovono i poteri, "limitandosi" a questo. All'insegna del sottotono, all'insegna dello scontatissimo. È naturale che non ci si ponga minimamente il pensiero che esistono persone che non hanno avuto neppure un decimo di tutto quello che in questo ambiente si dà per fermo e stabilito. Di loro a volte parla la cronaca. Un suicidio spettacolare: l'avvocato che si spara in bocca nel suo studio di via Podgora; un caso psichiatrico: il depresso che ammazza i passanti sparando dalla finestra di casa che dà sul Piazzale della Fiera Campionaria; i tossicodipendenti: il fidanzatino che strafatto di coca sfracella il cervello della malcapitata amichetta, l'ex-modella anche lei strafatta che si getta dal balcone col neonato e così via, la borghesia milanese ogni tanto. Ma l'altra sera: no. Una trentina fra bei giovanotti o meglio giovinetti e giovincelle che si apprestano ad entrare nel mondo del lavoro. Tutto è ben ovattato, certo qualche problema ce l'hanno, ma per ora, agli inizi, i genitori di ognuno di loro non smuovono i contatti che contano, quelli giusti. È l'esordio: insomma anche i loro pargoli un po' di gavetta la devono pur fare, hanno tra i venticinque e i trent'anni, hanno potuto frequentare le università giuste e studiare con tutta calma fra settimane bianche e estati in Sardegna, anno dopo anno. Ora è arrivato il momento di farli soffrire un po'… sì, anche se per finta, questa lieve incertezza del domani, questa precarietà apparente li deve temprare. Un annetto o due da sfigati, da persone normali se li devono fare pure loro. Pure il figlio del grande petroliere fa la maschera al Piccolo Teatro di Milano, gioca a fare il sindacalista, si cala nel ruolo, tanto un "safe haven" dove ritirarsi in caso di casini, casini veri, lui ce l'ha. (Mi viene in mente il mostriciattolo biondastro che stava per morire in mezzo ai due puttanoni transessuali, ma quello stava a Torino). E allora giochiamo a fargli fare le ossa a questi figli di papà, che a breve, quando pa' e ma' si sono stufati di averli fra i piedi, chiamano l'amico ministro, l'amico deputato o senatore, l'amico alle Nazioni Unite e un posticino lo trovano al loro pargoletto, che ormai è pronto per dirigere, è pronto per mettersi ad un posto di comando e con la sua mevavigliosa evve moscia a impavtive ovdini. Eppure, l'altra sera ho passato una bella serata. Ho partecipato, ho osservato e sono pure stato osservato, di bestie rare come me, di figli di nessuno, ce ne erano altri due, e ci è stato chiesto: "Ma voi come fate a conosceve C.?".
Sono rientrato alle ore piccole del mattino, era piacevole sentire il crepitio del fuoco provenire dai vari camini sparsi fra le stanze, l'aroma del narghilé intontante, e le chiacchiere: quelle sempre abbondanti sulla bocca dei figli della borghesia buona. I loro sogni, il voler cambiare "le cose", il futuro sostenibile e tutte queste guerre immorali che dilaniano il mondo, Ruanda e Congo, Sierra Leone e Guinea Bissau: quanta povertà, quanta ingiustizia! E poi le multinazionali e i presidenti fantoccio degli Stati Uniti d'America and so on and on… Eppure, lo ripeto, sono stato bene. Laddove, tempo addietro, avrei maledetto passare una serata in questo modo, l'altra sera, in questa Milano che vive un po' nascosta e ben al riparo fra massicce mura di case, non a caso, costruite almeno dal babbo del babbo a Mivabello, mi sono sentito a mio agio, per quanto ovviamente non veramente accolto. Stavo bene nella mia pelle, e mi guardavo attorno pure un po' divertito. Non ho più nulla da invidiare ai figli di questa borghesia buona. Ognuno ha la sua storia, ognuno la sua croce: quella disegnata dalle stelle. Mi è piaciuto stare con loro, e, in particolare, parlare con G. che ama condiviedere il suo sapere e ha voluto a tutti i costi il mio numero di telefono.
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Una sera alla "festa di compleanno" di C. Tutto bene bien sûr, nella Milano che conta nulla è fuori posto, e tutto è all'insegna della discrezione e dell'understatement, mai una cosa di troppo, mai una cosa di meno. Ospite: il fior fiore della fighetteria milanese. I figli delle famiglie giuste, quelle che contano davvero perché non si fanno mai vedere o sentire, che non si espongono, che non dicono nulla di sé: agiscono e basta. Muovono e smuovono i poteri, "limitandosi" a questo. All'insegna del sottotono, all'insegna dello scontatissimo. È naturale che non ci si ponga minimamente il pensiero che esistono persone che non hanno avuto neppure un decimo di tutto quello che in questo ambiente si dà per fermo e stabilito. Di loro a volte parla la cronaca. Un suicidio spettacolare: l'avvocato che si spara in bocca nel suo studio di via Podgora; un caso psichiatrico: il depresso che ammazza i passanti sparando dalla finestra di casa che dà sul Piazzale della Fiera Campionaria; i tossicodipendenti: il fidanzatino che strafatto di coca sfracella il cervello della malcapitata amichetta, l'ex-modella anche lei strafatta che si getta dal balcone col neonato e così via, la borghesia milanese ogni tanto. Ma l'altra sera: no. Una trentina fra bei giovanotti o meglio giovinetti e giovincelle che si apprestano ad entrare nel mondo del lavoro. Tutto è ben ovattato, certo qualche problema ce l'hanno, ma per ora, agli inizi, i genitori di ognuno di loro non smuovono i contatti che contano, quelli giusti. È l'esordio: insomma anche i loro pargoli un po' di gavetta la devono pur fare, hanno tra i venticinque e i trent'anni, hanno potuto frequentare le università giuste e studiare con tutta calma fra settimane bianche e estati in Sardegna, anno dopo anno. Ora è arrivato il momento di farli soffrire un po'… sì, anche se per finta, questa lieve incertezza del domani, questa precarietà apparente li deve temprare. Un annetto o due da sfigati, da persone normali se li devono fare pure loro. Pure il figlio del grande petroliere fa la maschera al Piccolo Teatro di Milano, gioca a fare il sindacalista, si cala nel ruolo, tanto un "safe haven" dove ritirarsi in caso di casini, casini veri, lui ce l'ha. (Mi viene in mente il mostriciattolo biondastro che stava per morire in mezzo ai due puttanoni transessuali, ma quello stava a Torino). E allora giochiamo a fargli fare le ossa a questi figli di papà, che a breve, quando pa' e ma' si sono stufati di averli fra i piedi, chiamano l'amico ministro, l'amico deputato o senatore, l'amico alle Nazioni Unite e un posticino lo trovano al loro pargoletto, che ormai è pronto per dirigere, è pronto per mettersi ad un posto di comando e con la sua mevavigliosa evve moscia a impavtive ovdini. Eppure, l'altra sera ho passato una bella serata. Ho partecipato, ho osservato e sono pure stato osservato, di bestie rare come me, di figli di nessuno, ce ne erano altri due, e ci è stato chiesto: "Ma voi come fate a conosceve C.?".
Sono rientrato alle ore piccole del mattino, era piacevole sentire il crepitio del fuoco provenire dai vari camini sparsi fra le stanze, l'aroma del narghilé intontante, e le chiacchiere: quelle sempre abbondanti sulla bocca dei figli della borghesia buona. I loro sogni, il voler cambiare "le cose", il futuro sostenibile e tutte queste guerre immorali che dilaniano il mondo, Ruanda e Congo, Sierra Leone e Guinea Bissau: quanta povertà, quanta ingiustizia! E poi le multinazionali e i presidenti fantoccio degli Stati Uniti d'America and so on and on… Eppure, lo ripeto, sono stato bene. Laddove, tempo addietro, avrei maledetto passare una serata in questo modo, l'altra sera, in questa Milano che vive un po' nascosta e ben al riparo fra massicce mura di case, non a caso, costruite almeno dal babbo del babbo a Mivabello, mi sono sentito a mio agio, per quanto ovviamente non veramente accolto. Stavo bene nella mia pelle, e mi guardavo attorno pure un po' divertito. Non ho più nulla da invidiare ai figli di questa borghesia buona. Ognuno ha la sua storia, ognuno la sua croce: quella disegnata dalle stelle. Mi è piaciuto stare con loro, e, in particolare, parlare con G. che ama condiviedere il suo sapere e ha voluto a tutti i costi il mio numero di telefono.
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