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Il Profeta di Jacques Audiard scuote, scombussola, come di norma deve un buon thriller.
L'orizzonte è ristretto, le alte mura del cortile lo contengono, i rapporti umani sono forzati, più del solito.
Tahar Rahim interpreta Malik El Jebna (Angelo del Formaggio, in traduzione...) un diciannovenne che si becca sei anni di galera, per qualcosa di poco conto. Nelle due ore e mezza in cui lo vediamo evolve alternando l'umano, l'angelico e il bestiale. Lo spettatore sprofonda nella corruzione, nella violenza, nella perversità. Il doppio, il triplo e il quadruplo fine. Tutto è condito da una buona dose di veridicità (quasi tutte le comparse sono dei veri carcerati) e da tante lingue e dialetti. Malik oltre a imparare ad uccidere, in carcere impara a cucire i jeans, a leggere e scrivere, e a parlare corso. Angelicamente. Da gangster.
Un mondo nel mondo, una legge fuori dalla legge, tutto è guasto e nessuno è risparmiato: giudici, avvocati, guardie, predicatori e devoti praticanti.
Non c'è spazio per alcuna catarsi, sei anni passano e Malik esce di galera trasformato da Angelo (ملاك) in Re (ملك) la pronuncia in arabo è quasi identica, re della malavita e della criminalità organizzata.
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Da qui in giù pericolo di spoiler...
A Malik, timido diciannovenne, per poter continuare a vivere viene chiesto di uccidere. Lui non ha dubbi: "io non uccido un c... di nessuno". Chiede un colloquio con il direttore del carcere, impossibile, uno con il capo della sezione carceraria in cui è rinchiuso, impossibile. In risposta: uno squadrone di picchiatori, capitanato da una guardia, entra nella sua cella al grido di "Qui la legge siamo noi", mette in chiaro alcuni concetti di base sulla convivenza in gattabuia stringendogli un sacchetto di plastica sul volto fino a quasi soffocarlo, e Malik decide che vuole continuare a vivere. Uccide. Risparmio i dettagli. Ucciderà di nuovo in una delle scene che mi hanno più colpito: una carneficina all'interno di un'automobile. Malik riemerge, assordato, da sotto a quattro cadaveri che deve letteralmente togliersi di dosso. Il dramma di Audiard però non vira mai al pulp.
L'apparente buona condotta permette a Malik di ottenere dei permessi di libertà controllata di dodici ore, alcune di queste uscite offrono suggestivi squarci di vita: il bucolico ritiro provenzale del mafioso di turno, Malik che bagna i piedi nel mare, Malik che prende per la prima volta un aereo, Malik che cena a casa di un ex-compagno di prigione in un contesto familiare. E' il Malik angelo.
Rimane il dubbio sulla sua metamorfosi, inconstistente l'attribuzione del titolo di "profeta". Malik è perseguitato dal fantasma dell'uomo che ha dovuto uccidere per vivere e questo apparentemente gli dà la possibilità di prevedere alcuni eventi. Nulla di più. Alcuni riferimenti al non mangiare halal, al Corano, a Maometto sembrano proprio un po' forzati. Come l'imperativo إقرأ, Leggi!, che compare a un certo punto sullo schermo... out of the blue.
Di positivo, durante tutto il film, la totale assenza di giudizio verso ognuno dei caratteri rappresentati. Non male il doppiaggio in italiano, avrebbero solo potuto lasciarci ascoltare un po' più di corso.
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